"SONO INCIAMPATA E CADUTA DALLE SCALE": QUESTA E' UNA DELLE TANTE DICHIARAZIONI, PER PAURA, NEI PRONTO SOCCORSO, DI VITTIME DONNE

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Un gran numero di ferite, di violenze, di discriminazioni, di prevaricazioni, di esclusione segnano senza fine la storia delle donne. C’è la violenza che ammazza e quella che non uccide, che lascia ferite indelebili, segni ancora più profondi di quelli esteriori.

Per la scienza, nel mondo umano la diversità 𝐛𝐢𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐚 (femmina - maschio) è data dalla natura, la diversità di 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞 è invece un prodotto della cultura.

Dunque, la femmina ed il maschio sono concetti biologici, la donna e l’uomo sono concetti sociali. 𝐋’𝐞𝐫𝐦𝐚𝐟𝐫𝐨𝐝𝐢𝐭𝐢𝐬𝐦𝐨, ossia la possibilità di possedere tratti fisici di entrambi i sessi, è una rarità nel mondo umano, mentre è una condizione normale per alcune specie animali e vegetali; eppure, secondo la cultura prevalente esistono donne ed uomini diversi.
Quando la cultura crea pregiudizi e stereotipi sulla femmina e sulla donna, essa dà origine alla violenza di genere.

Nel XIX sec, anche se la donna entrerà nelle fabbriche ed attraverso proteste congiunte di piazza inizierà ad ottenere diritti, pagandone spesso il prezzo più alto, ella fara’ ancora fatica a stabilire la giusta parità con l’uomo, in ambito sociale e politico. Il primo Paese a riconoscere i diritti politici alle donne fu la Nuova Zelanda nel 1893, seguita da dodici Stati degli USA nel 1914 e poi da alcuni Paesi europei. Tuttavia, la prospettiva sociale e culturale dominante sostiene ancora la legittimità dell’esercizio del potere maschile sulle donne, dominio e potestà che spesso si trasformano in diritto alla violenza.

La storia contemporanea vede finalmente la donna protagonista del proprio riscatto. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, nascono le prime congiunte organizzazioni femministe, si registrano le prime concrete disposizioni internazionali sulla parità tra uomo e donna, in primis quella inclusa nella Carta fondante le Organizzazioni delle Nazioni Unite che, al preambolo dichiara: “di riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne», ribadendo quest’ultima uguaglianza con l’art. 55, in cui si stabilisce che «le Nazioni Unite promuoveranno […] il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione». A queste fanno seguito le disposizioni, tra cui la “Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne” (risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993).

Nonostante tutto questo, paradossalmente è presente un aumento della violenza contro le donne, che va di pari passo con il «declino dell’impero patriarcale», retaggio di una concezione che affonda le sue radici nell’idea del supermaschio dominatore: «L’emancipazione della donna non porta ancora all’equilibrio sperato. Il bisogno dell’uomo di dimostrare la propria superiorità prende al contrario forme estremamente inquietanti» [Marzano M., “Sii bella e stai zitta”, Mondadori, Milano 2010]. Così, le donne continuano ad essere vestite di lividi. Molto spesso sono fatte tacere per sempre.

Sono tante, così tante le donne che subiscono soprusi, che si conia finanche un termine, 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨, un neologismo che identifica in generale la violenza sulle donne, in particolare l’assassinio di una donna per motivi basati sul genere. La più antica citazione che identifica una violenza in cui la vittima è una donna risale al 1801: in un saggio pubblicato in Inghilterra comparve il termine 𝐟𝐞𝐦𝐢𝐜𝐢𝐝𝐞 (femicidio) per indicare genericamente la violenza misogina e sessista dell’uomo nei confronti della donna.

Nel 1848 questo termine fu pubblicato nel ‘’Wharton’s Law - Lexicon: Forming and Epitome of the Law of England” un dizionario di giurisprudenza, suggerendo di farlo diventare un reato specifico. Nel 1992 il termine è riusato dall’attivista per i diritti delle donne sudafricana Diana Russell, nel libro “Femicide: The Politics of Woman Killing”, scritto a quattro mani, con la professoressa Jill Radford. Nel 2004 l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizza il termine femminicidio per far conoscere la drammatica violenza vissuta dalle donne in Messico, in particolare nella zona di Ciudad Juárez e la studiosa stessa riscrive il termine con la doppia consonante, riportandolo etimologicamente al termine “femmina”.

La parola femminicidio potrebbe non essere corretta, poiché rimanda all’idea sprezzante della “femina” (femmina in latino). E poi non spiega la realtà: si ammazza non perché femmina, ma perché donna. Il termine è tuttavia utile, perché serve in qualche modo a definire un delitto perpetrato contro una donna, proprio perché donna. Non sono delitti passionali, di passione non c’è niente, l’amore è un’altra cosa. Semmai c’è il possesso ed il dominio, che scatenano rabbia incontrollata, gelosia ed orgoglio: il possesso mancato da parte di un uomo su una donna, il dominio vacillante, o ancor più grave perduto, dal marito, dal padre su coloro che sono considerate al pari di una “proprietà”.

Mariti e fidanzati che ammazzano perché il loro “possesso” viene meno, padri che uccidono le loro figlie per aver rifiutato un matrimonio imposto, o per le loro scelte di vita non condivise in famiglia, quindi scelte venute meno all’autorità ed al dominio maschile. Solo in Italia, dall’inizio del 2023 sono centocinque le donne ammazzate dal partner, o dall’ex, un reale bollettino di guerra. Ma non c’è solo l’uccisione. Alla violenza mortale si affiancano ancor più spesso le violenze quotidiane, fisiche e psicologiche, con maltrattamenti, soprusi, offese e stalking che, anche se non uccidono il corpo, feriscono in modo indelebile colei che le riceve, rubando dignità e futuro.

La violenza contro le donne è oggi una delle violazioni dei diritti umani più ingiusta e diffusa ed in molti casi, la più nascosta. Gli omicidi sono solo la punta di un iceberg, fatto da lividi nascosti dal trucco, da ferite spesso celate in Pronto Soccorso dietro frasi come “sono scivolata sul tappeto”, o “sono caduta dalle scale”, bugie dette per paura, terrore, o vergogna.

La paura di ritrovarsi sole, il terrore di vendette e ritorsioni, la vergogna di riferire il proprio vissuto di afflizioni e patimenti alla conoscenza pubblica e di fronte a familiari omertosi, o che preferiscono ancora, come in passato ‘lavare i panni sporchi in famiglia’. A tutto questo è un dovere trovare soluzioni. E’ atto parziale inasprire le pene del Codice Penale a “danno compiuto”, sarebbe invece utile un’opera di educazione genitoriale e di intervento dello Stato sociale mirata sin dalla primissima età, rivolta sia alle donne sia agli uomini: alle donne per far loro comprendere che è un atto d’amore verso se stesse, oltre che un dovere, non tollerare con il silenzio la violenza dei “propri maschi”; all’uomo per fargli comprendere che non è il sesso in dotazione a “fare la differenza” e che un rapporto basato sulla stima e sul rispetto reciproco è una relazione che difficilmente terminerà.

Ricordo come il tema dell’educazione rivesta già un’importanza centrale nell’ordinamento giuridico italiano. Prova ne è il fatto che la stessa trova diversi riferimenti normativi all’interno della nostra Carta Costituzionale. Invece il paradosso, oggi, è il solo invito alle donne a difendersi, mentre si dovrebbe soprattutto educare l’uomo al rispetto di se’ e di Chiunque di fronte a se’, madre, sorella, amica, fidanzata, moglie.

Magda Della Serra

FONTI:
-moodle2.units.it
-miur.gov.it
-fedlex.admin.ch
-digitallibrary.un.org
-dianarussell.com
-journals.openedition.org
-tees.ac.uk
-ibs.it
-lawcat.berkeley.edu