CACCIA E PESCA NELL’ANTICA POMPEI (V PARTE)

letto 2589 volte
5-scan123456789.jpg

A questo punto mi piace riportare quasi integralmente qualche passo di un articolo sugli uccelli pubblicato dal DELLA CORTE sul giornale ROMA del 7 Agosto 1955. Ecco il primo: a proposito di un quadretto esibente tre uccelli, rinvenuto nella Villa dei FANNI in Boscoreale, egli così si esprime:

In uno sfondo dal tono rosso-grigio, ed attraversato a mezza altezza da una spranga, sono ritratti tre uccelli: in giù una pernice, sulla spranga una Gazza Pica ed un Fringuello conviventi in uno spazio chiuso e cioè ingabbiati. Nell’affresco che ci interessa, ora finito in Germania nella Galleria d’Arte di Francoforte, per la loro rispettiva natura nulla hanno a che vedere l’un con l’altro, onde il raggruppamento e la convivenza che qui si nota implicano un fine umorismo nella scelta del tema efficacemente realizzato da un’artista di classe.

Mentre la pernice, in conformità alla sua natura, se ne sta al suolo in un angolo a ingozzare becchime, vera dominatrice del gruppo è la Gazza-Pica amata dagli antichi per la sua loquacità e la facoltà di saper ripetere qualche motto (imitantes omnia picae: Ovidio, Met,5,299) specialmente il saluto ai venienti (Pica salutatrix, Marziale, VII,87), onde in molte case, come in quella di Trimalchione (Petron.28) essa aveva il suo posto sopra la porta d’ingresso e lanciava agli ospiti il suo AVE. E proprio in quell’atto la riproduce il dipinto col capo torto indietro e l’occhio rivolto all’ospite sopraggiunto. L’emissione del saluto, intanto, ha attirato sulla stanga il fringuello: e dal duetto, mentre emerge evidente la noncuranza della gazza, spicca l’atteggiamento saldo e orgoglioso “da critico” dal fringuello, il quale, a detta di Plinio (IX,116), fa ciò che gli si comanda, e non solo col canto, ma anche con le zampe ed il becco”.

Ed ecco il secondo brano: “Centinaia di abbeveratoi dalla conformazione conica tuttora in uso, trovati finora a Pompei, tutti di terracotta, meno pochi di bronzo e di vetro, provano quanto i Pompeiani amassero tenere in casa specialmente gli uccelli cantatori, sia in gabbie singole, sia in promiscuità in uccelliere vere e proprie (aviaria), onde, in numero e con le minori costrizioni, vi potessero star fermi o darsi a voli sia pur ridotti, e rallegrare il padrone col loro cinguettio.

Limitandomi a due soli dati, fra i più recenti, ricorderò che il trovamento degli ossicini chiari mostra che ad uccelliera era adibito nella Villa dei Misteri un armadio a muro, e che più ampia e spaziosa uccelliera era adibito un largo tratto del balcone dell’officina di tessitura (textrina) allo spigolo S.O. dell’Isola VII della REG.IX sulla via dell’Abbondanza. Ma quello che solo Pompei poteva consentire fu 20 anni fa, e per le cure di L.Iacono e di A.W.Von Buren, la totale ricostruzione di un vero e proprio grande Padiglione esagonale come gli odierni, di sei metri di diametro, adibito a ben popolata Uccelleria, completata da non sappiamo quante gabbie chiuse lungo le pareti del recinto: uccelliera di natura speculativa al n.16 dell’Isola VII della REG.VII ad occidente del Foro.

Ivi si recavano gli amatori a scegliere ed acquistare uccelli vivi; ed ivi pure, come è lecito creder, si faceva capo per fornire la mensa sia di grassi tordi, sia di ogni sorta di selvaggina abbattuta con ogni mezzo da cacciatori di professione. Questi usavano cacciare anche con falco, come è stato recentemente provato dal dipinto di un Falconiere. Nell’interno del Padiglione tutto chiuso in una rete di refe, lungo appoggi lignei disposti a congrua altezza, permettevano al commerciante, di notte o al fioco lume di una lucerna, di captare e ingabbiare gli uccelli venduti.

Giustificano l’interessante ricostruzione i buchi dei pali di sostegno, sposati alla vite ombrosa, mentre durante il giorno altra ombra fornivano i muri perimetrali; nell’angolo sud.est una vaschetta per l’abbeveratura ed il bagno; nel lato anteriore, sopra appositi pilastrini larghe coppe di creta per il mangime vario; in un angolo una vaschetta per i vermi nel terriccio: due cati di selce sulle quali pulire ed arrotare il becco e sei abbeveratoi di terracotta della solita forma”.

La VENATIO, sinonimo di violenza, era tutt’altra cosa: era la caccia agli animali a quattro zampe come lupi, orsi, cinghiali, lepri ed altri che corrono. Per questo il cacciatore era disposto a sopportare tutte le fatiche, ad inseguire, a tollerare il gelo della notte e ad essere anche immemore della consorte, come dice Orazio (OD.I,1,25-28). La grande battuta di caccia consisteva nello scovare la fiera ed inseguirla poi con i cani, spingendola verso le reti. Come dice anche Lucrezio (XI,122°) il cane era, come sempre, il fedelissimo compagno dell’uomo; uno schiavo (magistre canum) ne curava l’allevamento, l’educazione e l’allenamento, cominciando da quando erano cuccioli per sviluppare in essi gli istinti venatori, aizzandoli contro pelli di fiere (Orazio, Epist.1,2,64,67) e per sguinzagliarli poi con gli adulti contro la selvaggina. (continua)